Martin Wight

Il volume di Martin Wight, considerato come uno dei co-fondatori della scuola inglese di relazioni internazionali, raccoglie due sue opere: Politica di potenza ('Power Politics') e Sistemi di Stati ('Systems of States').
Il primo esce nel 1946, a guerra appena finita, e viene subito tradotto in tedesco dall'economista, sociologo e storico della cultura Alfred Weber, impegnato nella pubblicazione di due importanti riviste – «Die Wandlung» con Karl Jaspers e «Kiklos» con Luigi Einaudi – e da poco iscritto al risorto partito socialdemocratico. Una delle ragioni di questa tempestiva traduzione e pubblicazione è, probabilmente, la volontà di introdurre nel dibattito politico-culturale della Germania occupata un concetto di 'politica di potenza' spogliato da ogni retorica nazionalista e non basato sulla sola 'forza', ma in tensione con il diritto e la giustizia.
Il secondo, Sistema di Stati, esce postumo nel 1977 per la cura di Hedley Bull ed è uno studio comparato dei 'sistemi di Stati', dalla Grecia classica allo Stato moderno europeo. Non è un'opera finita, bensì una raccolta di saggi e appunti inediti, a eccezione del testo dedicato alla 'legittimità internazionale'. Si tratta di un 'manuale' di relazioni internazionali sorprendente per metodo e saperi coinvolti – storia, economia, filosofia, scienze sociali e politiche – che si fecondano vicendevolmente, e spingono così il lettore con l'occhio rivolto al presente a collegamenti nuovi e impensati. Nulla di più lontano dall'odierno specialismo accademico.
L'equilibrio di potenza è garanzia di stabilità e – secondo Wight – regge «fino a quando qualcuno si assume il rischio di mantenerlo». Fondamentale per la costruzione di un ordine politico globale, esso può essere prodotto «solo da coloro pronti al sacrificio per crearlo e farlo rispettare».
Una linea di pensiero 'realista' percorre questi volumi, ma ognuno ne illumina un aspetto perché, come ci insegna Wight, il 'realismo' non è necessariamente sinonimo di 'realistico'.
Il fatto che i realisti siano definiti tali «non produce nessuna inferenza che ciò che i realisti dicono sia realistico». Paradossalmente, per il nostro autore, se il realismo è un utile antidoto all'utopia, dall'altro non è incompatibile con la 'speranza' perché quest'ultima «è una virtù teologale e non politica».